Recensione di Luigi Somma
Shoshana Zuboff, nel suo volume “Il capitalismo della sorveglianza”, compie una poderosa opera di scavo, ricostruzione e definizione di una vera e propria architettura della sorveglianza (ad opera dei “nuovi padroni del mondo”), i cui meccanismi sotterranei governano e plasmano silenziosamente le nostre vite e i nostri comportamenti sociali.
1. Dalla società di massa al processo di individualizzazione: la nuova era digitale
La prima parte del libro è tesa a individuare le basi, nonché le condizioni storico-sociali, che hanno favorito la nascita di quello che l’autrice definisce come “il capitalismo della sorveglianza[1]”. A cavallo tra le “due modernità[2]”, l’autrice individua due principali rivoluzioni, ossia due accadimenti epocali che trasformano in maniera dirompente l’assetto economico- produttivo delle epoche precedenti, ponendo anche le condizioni per il realizzarsi di una rivoluzione della cultura e della società dei consumi. La transizione che si realizza dalla cosiddetta “produzione di massa” alla “rivoluzione di Apple”, sembra offrirci la chiave adatta per l’accesso ad una nuova “era digitale”, e ad una forma di capitalismo razionale in grado di adattarsi ai bisogni di una nuova classe di consumatori, assecondandone bisogni e valori, nel contempo avviluppandoli nella seducente promessa di poter soddisfare i loro desideri ove e quando volessero.
Ora, è importante evidenziare come il “capitalismo della sorveglianza” prenda le mosse da quelle stesse forze che avrebbero dovuto proteggerci dalla sua architettura del controllo dei comportamenti e, come vedremo, dai suoi meccanismi di ricerca del profitto. Esso, precisamente, deve la sua nascita dalla “collisione” distruttiva di due forze opposte e contrarie, ma con-presenti, della modernità: da una parte, il bisogno dell’individuo di autodeterminarsi e di distinguersi dalle masse, e dall’altra il radicarsi di un habitat “neoliberista[3]”, volto unicamente alla massimizzazione del profitto e all’assoggettamento della politica e dell’autorità statale alle leggi del libero mercato[4]. Possiamo considerare Google come l’azienda pioniera nella sperimentazione e nella messa in pratica di queste inedite pratiche di sorveglianza.
2. Il “mercato dei comportamenti” e l’espropriazione selvaggia dei dati e delle esperienze umane
L’autrice si serve di alcuni studi, articoli e ricerche per identificare i “nuovi usi” determinati da queste pratiche: dall’“estrazione e l’analisi dei dati” – che costituiscono la materia prima di questo inedito processo di produzione – all’elaborazione di algoritmi “intelligenti”, medianti i quali la materia prima precedentemente acquisita (i nostri dati comportamentali) può essere convertita in “prodotti algoritmici remunerativi” (si pensi ad esempio alla “pubblicità targetizzata”, nota anche come targeted advertising) finalizzati a predire il comportamento degli utenti[5]. Qui Zuboff, attraverso una trattazione (di ben 539 pagine) condotta in maniera estremamente metodica, ci introduce all’interno di un’“architettura della sorveglianza” (finalizzata al profitto) di cui noi stessi siamo la materia prima, laddove le nostre relazioni, esperienze e emozioni costituiscono un enorme mosaico di dati comportamentali soggetti ad “esproprio”.
Tutte questioni specificatamente trattate nel libro: le ingannevoli clausole contrattuali relative alla privacy in rete, le battaglie per il “diritto ad essere dimenticati”, enunciano una flebile coscienza di questo esproprio e il tentativo di legittimare una qualche forma di resistenza. L’utilizzo dei “dati di scarto”, scaturiti dalle ricerche in rete, e un tempo considerati spazzatura, sono, ora, “surplus comportamentale” da dare in pasto a sistemi di analisi algoritmica sempre più sofisticati, capaci di apprendere e di ricavarne “pacchetti confezionati” di prodotti predittivi. Ma a destare maggiori preoccupazioni è il tentativo dei grandi colossi del web (la cui concorrenza è andata, via via, aumentando) di estendere le applicazioni di queste pratiche di profitto, elaborando nuove strategie: soprattutto muovendosi nel tentativo di traslare questo “mercato dei comportamenti predittivi” dal mondo virtuale a quello reale.
D’altra parte, numerose strategie sono state messa a punto allo scopo di costruire enormi “fossati” intorno al castello (per renderli sempre più inespugnabile) e sfuggire ai tentativi di regolamentare e normare le attività di monitoraggio e di appropriazione di dati ritenuti sensibili in rete[6]. Si può legittimamente affermare che coloro che possiedono conoscenza detengano anche il potere, ed è proprio sulla spinta di questa concentrazione di conoscenza e potere che il capitalismo della sorveglianza «può dominare il principio assiale dell’ordine sociale in una civiltà dell’informazione»[7] .
3. La fine dell’utopia: la società asimmetrica*
Si è, pertanto, assistito ad un importante cambio di paradigma: se nella prima modernità, il principio ordinante del lavoro era la divisione delle mansioni, ora si può dire sia la “divisione dell’apprendimento”. Chi sa? Chi decide chi sa? Chi decide chi decide? Potremmo rispondere a questi interrogativi, soltanto analizzando le asimmetrie e le diseguaglianze che tale privatizzazione della divisione dell’apprendimento pone in essere; ovvero, riflettendo se i termini di tale appropriazione siano consensuali, e soprattutto da dove derivi questo potere (di poter disporre della conoscenza). Tali domande ci conducono direttamente al “problema dei due testi” e sul perché il secondo (il testo ombra) resti celato agli utenti e diventi una materia prima da commerciare per il profitto altrui[8].
Al fine di alimentare i profitti di tale sistema, non è, infatti, più sufficiente operare esclusivamente entro “un’economia di scala” (aumentando, in tal modo, il volume e la quantità di dati analizzati, estratti e convertiti), bensì si è rivelato necessario abilitare anche “un’economia di scopo” e di un’“economia d’azione”[9]. Ciò ha mutato radicalmente gli obiettivi strategici da conseguire: i capitalisti della sorveglianza hanno, cioè, compreso che i loro guadagni futuri sarebbero dipesi sempre più dalle nuove vie di approvvigionamento del surplus comportamentali, estendendo il proprio raggio d’azione anche nella vita reale; inoltre, essi sono giunti alla conclusione che il miglior modo per realizzare prodotti predittivi dotati di maggiore certezza fosse intervenire direttamente alle fonti del comportamento al fine di, e sottolineo, di “determinarlo”. Prende, dunque, corpo un autentico “business della realtà”, mediante processi computazionali ubiqui animati da una “compulsione economica” a raggiungere tale certezza[10] .
4. Conclusione. Il potere dell’algoritmo e il regno della certezza
Nell’ultima parte l’autrice descrive, con grande chiarezza, lo scheletro di questo grande apparato (per l’appunto, “Il grande Altro”) e del suo “potere strumentale”, in quanto capace di strumentalizzare i comportamenti al punto non soltanto al punto da prevederne gusti, preferenze e orientamenti, ma di comprenderne e plasmarne esattamente i meccanismi d’azione.
Il contesto d’azione degli individui qui prefigurato da Zuboff – dai contorni, evidentemente, orwelliani – è quello di un “grande alveare” (interconnesso) in cui individui anomici e obliterati della propria “volontà di volere” agiscono armonicamente come se fossero parte di una grande” intelligenza collettiva”[11], benché deprivata della propria creatività e libertà; un’organizzazione sociale in cui ai valori intrinseci della reciprocità e alla fiducia subentra la “funzione (predittiva) della certezza”, nella quale tutto si dispiega “nell’equivalenza di un’eguaglianza” in cui è assente qualsiasi significato.
Ovviamente, ciò deve essere letto come l’esito ultimo (assume più la valenza di una nefasta profezia) di una serie di operazioni di condizionamento già messi in opera dai capitalisti della sorveglianza. L’idea del “grande alveare” deve essere, al momento, derubricata come un’utopia della scienza comportamentale[12]. Ma, in conclusione, bisogna riflettere su fin dove ci si voglia spingere, pur di far parte di questo complesso e efficiente ecosistema virtuale, nel rinunciare alla propria libertà, al proprio “santuario”[13] e ai diritti naturali inerenti alla propria soggettività.
Letture consigliate:
- Michele Mezza, Algoritmi di libertà. La potenza del calcolo tra dominio e conflitto, Donzelli editore, Roma (2018)
- Byung-Chul Han, La società della trasparenza, trad. it. F. Buongiorno, nottetempo edizioni, Milano (2014).
- Z. Bauman D. Lyon, Sesto potere. La sorveglianza nella modernità liquida, Laterza, Roma-Bari (2015)
Note
[1] L’autrice definisce “il capitalismo della sorveglianza” come una nuova forma di mercato, la quale segue una logica dell’accumulazione per cui «la sorveglianza è il meccanismo di base della trasformazione dell’investimento in profitto».
[2] A tal proposito, l’autrice scrive: «la prima modernità è coincisa con la grande diffusione dell’individualizzazione della vita. Ogni vita è divenuta una realtà predeterminata, che bisognava soltanto scoprire e mettere in scena», cit. Op. cit. p. 43; «il patto gerarchico generato dalla seconda modernità prometteva ricompense prevedibili, con la possibilità di una vita più ricca e complessa» op. cit., p. 45.
[3] A metà degli anni Settanta del Novecento, l’economista Friedrich Hayek, e il suo epigono americano Milton Friedman, affinarono una teoria e un’ideologia basate su un’idea di mercato estremamente libero. Tale dottrina era nata in Europa come un tentativo di difesa contro le minacce delle ideologie collettiviste totalitarie e comuniste; egli riteneva che l’individuo e la comunità dovessero sottoporsi alla gravosa disciplina del mercato.
[4] Ivi, pp. 40-43.
[5] Ivi, p. 75.
[6] L’autrice elenca, precisamente, tre fasi strategiche messe in atto dai “padroni della rete” per poter continuare a attuare le proprie pratiche di sorveglianza e di espropriazione del surplus comportamentale: l’incursione; l’assuefazione; l’adattamento; il reindirizzamento. Si leggano le pagine 152-165.
[7] Op. Cit., p. 193.
[8] S. Zuboff chiarisce che, riguardo al primo testo, è rivolto al pubblico e che noi ne siamo tanto gli autori quanto i lettori; esso ci è familiare per quell’universo di informazioni e connessioni che ci offre a portata di dita; tuttavia, il primo testo fornisce materia prima al secondo: il testo ombra. Questo surplus, celato alla nostra vista, ci dice più di quanto vorremmo sapere di noi stessi (Ibidem, p. 199).
[9] Ibidem, p. 256
[10] Ibidem, p. 218.
[11] Ibidem, pp. 484-485.
[12] Alex Pentland (autore della “Fisica sociale”), prendendo le mosse dalle teorie di uno psicologo del comportamentismo B. F. Skinner, insieme a studenti e collaboratori del MIt, è uno dei rari utopisti ad aver diffuso una “teoria della società strumentalizzata”; Egli teorizzava il passaggio da società a sciame e da individui a meccanismi.
[13] Per il sociologo Erving Goffman, la celebre distinzione tra “ribalta” e retrocena” è divenuta metafora dell’esigenza di un luogo in cui rifugiarci in noi stessi.
* il concetto e la definizione operativa di “società asimmetrica” sono state proposte da Piero Dominici in diverse sue pubblicazioni scientifiche. Tra i contributi divulgativi più recenti: https://pierodominici.nova100.ilsole24ore.com/2015/09/23/la-societa-asimmetrica-e-la-centralita-della-questione-culturale-le-resistenze-al-cambiamento-e-le-leve-per-innescarlo/
Fonte immagini:
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